In un recente articolo apparso sul New York Times, Chris Hughes – uno dei co-fondatori di Facebook – si chiede, in una boutade che non è proprio così assurda, se non sia il caso di chiudere, sospendere o per lo meno limitare il famoso social network blu.
“It is time to break up Facebook”. Lo dice chiaramente, perché riconosce che la concentrazione di tantissimo potere nelle mani di pochissime persone – di fatto, solo quelle di Mark Zuckerberg – non sia il modo corretto per gestire la responsabilità che Facebook ha da un lato fatto in modo di ottenere, e dall’altro che gli utenti gli hanno concesso.
Hughes parte da un assunto relativo ai valori fondanti degli USA, e infatti sostiene apertamente:
Mark’s power is unprecedented and un-American. […] We already have the tools we need to check the domination of Facebook. We just seem to have forgotten about them.
L’autore punta l’accento sulle inefficienza del mercato, su quanto sia illusorio credere che Facebook sia gratis visto che gli concediamo una mole enorme di dati e di attenzione, due dei veri asset dell’epoca attuale.
The choice is mine, but it doesn’t feel like a choice. Facebook seeps into every corner of our lives to capture as much of our attention and data as possible and, without any alternative, we make the trade.
Il vero problema però, per Hughes, è l’unilateral control over speech nelle mani di Zuckerberg. Egli continua nell’analisi andando ad approfondire la dimensione in stile monopolistico assunta da Facebook, alla luce del drive che trainava Mark Z. verso quella che lui stesso chiamava (o invocava) “domination”.
Ne dà un’interpretazione anche economica, proponendosi nel solco di chi chiede al governo Americano di imporre una divisione di Facebook in più entità, differenziando Instagram, Whatsapp e Facebook per cominciare. Il tutto in funzione di una maggior concorrenza, citando anche Adam Smith:
Adam Smith was right: Competition spurs growth and innovation.
Quella di Hughes è una chiamata alle armi verso lo Stato per una regolamentazione interna, ma quello che mi preme sottolineare è un altro aspetto.
Nel Dialogus de oratoribus attribuito a Tacito si parla del declino dell’oratoria. È ambientato tra il 75 e il 77 d.C., e il protagonista della vicenda, Curazio Materno, sostiene una tesi molto acuta. I suoi simposiasti infatti attribuiscono la causa di questa decadenza nell’oratoria ai luoghi comuni di ogni epoca come l’inadeguatezza delle scuole, o l’impreparazione dei maestri o ancora della decadenza della moralità.
Materno, invece, sposta il punto di vista e afferma che l’oratoria non può vivere in un regime assolutistico (siamo sotto l’impero-principato di Vespasiano). La libertà dell’epoca repubblicana ammetteva per natura la presenza di dissonanze e discordie, ma sono proprio queste ad alimentare la grande oratoria. L’assolutismo monocorde dell’impero impone una “pace sociale” che implica varie comodità, ma che annichilisce l’oratoria.
E se quel monopolio prospettato da Hughes – e piuttosto realistico nei fatti – fosse un’allegoria di quell’assolutismo che Tacito metteva in bocca a Materno? E se quell’oratoria che i personaggi del Dialogus dicono decaduta fosse il simbolo della varietà delle idee?
Se così fosse, si correrebbe il rischio di un annullamento delle differenze, di un appiattimento delle idee e dei pensieri, eterodiretto da un’entità esterna e incontrollabile da alcuno, nemmeno da tutti gli utenti. A un primo momento ci può sembrare impossibile: ognuno pensa sempre di generare pensieri originali.
Ma se facciamo dipendere le nostre idee da un’unica fonte informativa (perché chi organizza i contenuti, se si prende la briga di censurarne alcuni, diventa loro produttore) proprio perché immersi in un’unica bolla diretta da un’unico ente – e in questo caso esso risponde addirittura a una sola persona -, cosa accade alla nostra indipendenza?
Credo che la tesi di Hughes, legata all’aspetto socio-economico, sia solo una faccia della medaglia. Se i fatti e le opinioni da diffondere o da oscurare sono decisi da un algoritmo che non è conosciuto appieno nemmeno da chi lo implementa, mi metto nella sua ombra e penso che il problema sia anche quello di un assolutismo del pensiero.
Sono altrettanto convinto, però, che tutti noi singoli abbiamo la capacità di renderci refrattari a questo rischio, senza mai dimenticare di chiedersi, in onestà con se stessi, cosa stiamo affermando e cosa stiamo negando; secondo quali principi; se siamo coerenti con le nostre azioni e se, in caso negativo, per quali motivi non lo siamo.
In fondo, l’unica costante della Storia, è sempre l’Uomo.